I requisiti oggettivi del reato di combustione illecita di rifiuti

I requisiti oggettivi del reato di combustione illecita di rifiuti

di Ginevra Ripa

Corte di Cassazione Penale, Sez. III – 11 gennaio 2021 (dep. 29 aprile 2021), n. 16346 – Pres. Ramacci, Est. Andronio – ric. Baldi

La Corte di Cassazione puntualizza come, ai fini della integrazione del reato di combustione illecita di rifiuti di cui all’art. 256 bis D.Lgs. 152/2006, non sia necessario il verificarsi di un danno all’ambiente né di un pericolo per l’incolumità pubblica, non essendo previste nel testo della disposizione specificazioni ulteriori alla locuzione «appicca il fuoco».

  1. La vicenda oggetto del procedimento e i motivi di ricorso 

La Corte di Cassazione si è recentemente espressa in relazione ai requisiti oggettivi dell’illecito previsto dall’art. 256 bis D.Lgs. 152/2006, a partire dal ricorso depositato dal difensore di un imputato condannato in primo grado – condanna confermata in appello – per «aver appiccato il fuoco ad un cumulo di rifiuti, anche di tipo pericoloso – quali flaconi di plastica, contenitori di prodotti chimici ed altri residui di attività edilizia – depositati in maniera incontrollata sul fondo di sua proprietà».

L’impugnazione in sede di legittimità è stata articolata in cinque motivi di doglianza. Con il primo, il ricorrente ha lamentato un vizio di motivazione riferibile al teste la cui segnalazione ha dato origine al procedimento, indicato come poco credibile a causa dei forti contrasti da tempo esistenti con l’imputato, nonché il conseguente mancato rinnovo dell’istruttoria dibattimentale.

Con il secondo è stata censurata l’erronea applicazione della legge penale unitamente al vizio di motivazione, poiché l’imputato sarebbe stato condannato soltanto sulla base delle dichiarazioni del teste poc’anzi menzionato, senza che tali dichiarazioni fossero suffragate da altri elementi e si potesse così giungere ad una affermazione di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, in violazione degli artt. 530, comma 2, e 533, comma 1, cpp. 

Il terzo motivo di ricorso ha riguardato l’erronea applicazione dell’art. 256 bis D.Lgs. 152/2006: la condotta, infatti, sarebbe stata correttamente inquadrabile non nel delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui alla disposizione, quanto piuttosto nel delitto di incendio, ex art. 423 cp, non essendosi trattato di abbruciamento di rifiuti pericolosi abbandonati o depositati in maniera incontrollata, bensì «di materiale prevalentemente legnoso, non nocivo per l’ambiente».

Il quarto ed il quinto motivo di doglianza hanno afferito alla mancata applicazione, rispettivamente, dell’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis cp e del beneficio della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale ex art. 175 cp, pur sussistendone in entrambi i casi, secondo il ricorrente, i presupposti di legge.  

  1. La decisione della Corte e alcune brevi considerazioni 

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso inammissibile, accomunando il primo, il terzo, il quarto e il quinto motivo di doglianza ad una riproduzione di rilievi di merito già esaminati e motivatamente disattesi dai Giudici di merito e censurando il secondo motivo in quanto contenente una improponibile richiesta di valutazione in fatto. 

La sentenza, tuttavia, ha indugiato sull’argomentazione riferita all’erronea qualificazione della condotta dell’imputato – da ritenersi, secondo il ricorrente, integrativa del delitto di incendio – offrendo alcune considerazioni sulle quali è opportuno soffermarsi.  

Anzitutto, nel provvedimento decisorio è stata brevemente riepilogata la disciplina normativa, a partire dalla lettera della “nuova” disposizione di cui all’art. 256 bis D.Lgs. 152/2006, la quale prevede la punizione con la reclusione da due a cinque anni di «chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata», prevedendo inoltre la pena più alta della reclusione da tre a sei anni nel caso si tratti di rifiuti pericolosi, nonché una clausola di sussidiarietà espressa. La fattispecie incriminatrice contempla altresì l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi, il risarcimento del danno ambientale e il pagamento, anche in via di regresso, delle spese di bonifica.

Si tratta dunque di una disposizione alquanto gravosa, introdotta dall’art. 3 D.L. 136/2013, come convertito con modifiche nella L. 6/2014: una disciplina generale entrata in vigore sull’onda di una situazione particolare, generatasi negli anni nel perimetro della c.d. “Terra dei fuochi”, tra le province di Napoli e Caserta, ove nel contesto di un forte degrado ambientale si verificavano sovente roghi di rifiuti.

La questione sollevata dalla difesa attiene alla qualificazione della condotta come “incendio” anziché come “combustione illecita di rifiuti”. Tale argomentazione poggia le proprie basi su un elemento meramente fattuale, ossia la natura dei rifiuti bruciati – secondo il ricorrente, essenzialmente legnosi e dunque non nocivi per l’ambiente; secondo la ricostruzione avallata dai Giudici di merito, anche pericolosi (plastica e cera) – ma offre lo spunto per un’analisi comparativa tra i due delitti, pur già affrontata sia in giurisprudenza sia in dottrina, con specifico riguardo all’anticipazione della tutela nel delitto di cui alla legislazione speciale rispetto alle fattispecie codicistiche di incendio.  

Ciò a partire dalla rubrica dell’uno e dell’altro delitto: come è stato osservato[i], invero, il mero utilizzo della locuzione «appicca il fuoco» in luogo di «cagiona un incendio» già di per sé identifica un’anticipazione della tutela, in quanto quest’ultimo, giuridicamente (ma anche, in verità, nel linguaggio comune) è un evento nel quale «il fuoco divampi irrefrenabilmente, in vaste proporzioni, con fiamme divoratrici che si propaghino con potenza distruttrice»[ii], mentre nel primo caso è sufficiente la presa delle fiamme sui rifiuti, indipendentemente da un eventuale sviluppo e dal pericolo per l’altrui incolumità (o da un danno all’ambiente) che, secondo l’argomentazione della Suprema Corte, non è espressamente indicato nella disposizione di cui all’art. 256 bis T.U.A. e di conseguenza non è richiesto ai fini dell’integrazione della fattispecie.

Sotto tale profilo, essa appare dunque ben più gravosa rispetto all’ipotesi di incendio di cosa propria di cui al secondo comma dell’art. 423, la quale, richiedendo anche l’esposizione a pericolo della pubblica incolumità, costituisce senza dubbio un esempio di migliore bilanciamento con il diritto del proprietario di disporre della cosa propria.  

Tale fattispecie, così come elaborata dal Legislatore, se da un lato concede ben poco margine al Giudicante nella valutazione del fatto e nella conseguente applicazione della disciplina legislativa, dall’altro lato innegabilmente sconta la rigidità propria della sua origine in un contesto eccezionale ed emergenziale e pone un evidente problema di aderenza al principio di offensività del diritto penale, non prevedendo apprezzabili spazi di sviluppo di una prova contraria né l’individuazione, ad esempio, di un quantitativo minimo di rifiuto ai fini dell’integrazione del delitto.

Inoltre, l’elevata pena prevista – sia nella fattispecie di cui al comma 1 sia a fortiori in quella aggravata del comma 2, nel caso di rifiuti pericolosi – molto somigliante alla cornice edittale individuata per l’incendio e ispirata «a criteri di mera intimidazione»[iii], può rendere ancor più incomprensibile al soggetto condannato un’attribuzione di responsabilità penale che non possa essere proporzionata o mitigata in ipotesi di basso (o nullo) rischio lesivo in concreto, nata per di più nel contesto di reati di natura contravvenzionale.

Così descritti l’elemento oggettivo e il trattamento sanzionatorio del reato di combustione illecita di rifiuti, occorre allora forse valorizzare in sede di giudizio, mediante una valutazione il più possibile scrupolosa, l’elemento soggettivo doloso, il quale dovrà necessariamente dimostrare la consapevolezza dell’imputato sia in relazione all’atto di dare alle fiamme i rifiuti sia con riguardo all’eventuale carattere pericoloso del rifiuto stesso.

D’altro canto, restano a disposizione del Giudice istituti di carattere generale che possono restituire un’adeguata proporzione tra la fattispecie astratta di cui all’art. 256 bis D.Lgs. 152/2006 e la condotta concreta, tra i quali rileva senz’altro l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis cp, invocata dal ricorrente nel caso di specie.

SCARICA L’ARTICOLO IN PDF

Nota a Cass. Pen. Sez. III, 9 aprile 2021, n. 16346

Per il testo della sentenza cliccare sul pdf allegato

Cass. III 16346_2021 (1)

Note

[i] A. Alberico, “Il nuovo reato di combustione illecita di rifiuti”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 17 febbraio 2014, pag. 8.

[ii] Così Cass. Sez. IV, 11 novembre 2008, n. 43126.

[iii] Così A. Alberico, op. cit., pag. 18.