di Antonio Aruta Improta
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), nella raccomandazione n. 128/1972 definì il principio “Chi inquina paga”, in forza del quale al responsabile del danno all’ecosistema o della minaccia di esso si devono, giustamente, imputare tutti «i costi della prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento come definite dall’Autorità pubblica al fine di mantenere l’ambiente in uno stato accettabile».
La raccomandazione, di per sé non vincolante, fu comunque di ispirazione per la comunità internazionale, la quale consolidò il principio della responsabilità individuale anche attraverso gli strumenti normativi vincolanti, quali gli accordi. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, alla Convenzione sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da combustibile delle navi, avallata a Londra nel 2001 (v. Art. 3) e al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, così ridenominato dal Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009 (v. Art. 191, par. 2).
Mentre la responsabilità statale, ove prevista, risulta di regola residuale rispetto a quella del soggetto materialmente responsabile del pregiudizio all’ecosistema, ossia l’operatore. Residualità in termini di alimentazione di fondi pubblici che operano nel caso in cui i pregiudizi superino i limiti della responsabilità di quest’ultimo e/o di garanzia marginale statale per i danni causati sempre dall’operatore. Così si riferiscono, ad esempio, le disposizioni di cui all’art. 8, par. 3 e par. 7, lett. a), b) e c), della vecchia Convenzione sulla regolamentazione delle attività minerarie in Antartide, adottata a Wellington nel 1988 (v. M. Alberton, Il danno ambientale in un’ottica multilivello: spunti di riflessione, IANUS, n. 2/2010).
Ad oggi, di fatto, solamente un trattato internazionale concepisce una piena responsabilità ambientale dello Stato: la Convenzione sulla responsabilità internazionale per danni causati da oggetti spaziali, approvata contemporaneamente a Londra, Mosca e Washington nel 1972, un paio di mesi prima della suddetta raccomandazione dell’OCSE.
Trattasi, in particolare, di uno dei tanti accordi internazionali di settore, dedicato, appunto, ai soli danni ambientali causati da oggetti spaziali, che al secondo articolo stabilisce: «Uno Stato di lancio ha la responsabilità assoluta di risarcire il danno cagionato da un suo oggetto spaziale alla superficie terrestre o agli aeromobili in volo».
In tale ipotesi, che il soggetto materialmente responsabile dell’oggetto spaziale eserciti un’attività pubblica o privata è indifferente, perché sussiste, in ogni caso, la sola responsabilità dello Stato di lancio. Una responsabilità, tra l’altro, oggettiva e assoluta, ossia basata sul mero nesso di causa-effetto e senza esclusione alcuna.
Inoltre, il riferimento alla superficie terrestre qui assume una portata generale e può essere, quindi, esteso a tutte le componenti ambientali lesionate dall’oggetto spaziale.
A livello europeo, invece, la storica Direttiva-quadro 2004/35/CE, che ha recepito il principio chi inquina paga e delineato la prima disciplina comune agli Stati membri dell’odierna Unione Europea sulla prevenzione e riparazione del danno ecologico, si concentra nuovamente sulla responsabilità ambientale individuale.
A tale riguardo, il soggetto interessato è chiaramente l’“operatore”, ossia colui che esercita un’attività professionale rischiosa per l’ambiente e/o la salute dell’uomo. Segnatamente, al considerando n. 18 viene dedotto che «l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. Quando l’autorità competente interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta autorità dovrebbe far sì che il costo da essa sostenuto sia a carico dell’operatore. E’ inoltre opportuno che gli operatori sostengano in definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno».
E tra i costi della prevenzione e riparazione a carico dell’operatore si annoverano, in specie, «i costi giustificati dalla necessità di assicurare un’attuazione corretta ed efficace della presente direttiva, compresi i costi per valutare il danno ambientale, una minaccia imminente di tale danno e gli interventi alternativi, le spese amministrative, legali e di applicazione, i costi di raccolta dei dati e altri costi generali, nonché i costi di controllo e sorveglianza» (v. Art. 2. 16).
Per completezza, vi è da dire che la suddetta Direttiva non è stata né la prima né l’ultima ad aver recepito il principio internazionale in parola. Questo, infatti, è rinvenibile già nella Raccomandazione del Consiglio concernente l’imputazione dei costi e l’intervento dei pubblici poteri in materia di ambiente, con in allegato la Comunicazione della Commissione Europea avente ad oggetto la ripartizione dei costi e l’intervento dei poteri pubblici in materia di ambiente (v. Raccomandazione 75/436/Euratom, CECA e CEE, in GU N. L. 194/1 del 25/07/1975). Così anche nella Direttiva-quadro 2000/60/CE per l’azione comunitaria in materia di acque (v. Art. 9) e nelle Direttive 2008/98/CE per la gestione e il trattamento dei rifiuti (v. Art. 14) e 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti (v. Art. 10), entrambe modificate dalla Direttiva 2018/850/UE.
Tornando alla Direttiva 2004/35/CE, circa il regime di responsabilità ivi previsto vi è un distinguo: per i danni alla biodiversità o la minaccia di essi determinati da attività professionali rischiose rientranti tra quelle definite pericolose dall’Allegato III alla direttiva, è predeterminato un sistema di responsabilità oggettiva, per cui è sufficiente la rilevazione del solo nesso causale tra l’attività e il pregiudizio o la minaccia di esso; per le attività professionali rischiose ma non pericolose ex Allegato III, invece, è configurato un sistema di responsabilità che richiede anche il dolo o, quantomeno, la colpa, oltre alla sussistenza del nesso eziologico (v. Considerando 8-9 e artt. 2-3).
A tale proposito, risulta sempre doveroso menzionare la celebre pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-378/08 del 2010 che, da una parte, ha ribadito l’indispensabilità della sussistenza del nesso causale anche nei casi di responsabilità ambientale oggettiva; dall’altra parte, ha indicato dei criteri per ricostruire tale nesso, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore al luogo della contaminazione e la corrispondenza tra le sostanze nocive riscontrate sul posto e le componenti industriali adoperate nell’esercizio dell’attività professionale rischiosa dell’operatore.
Quanto all’Italia, la Parte Sesta del D.lgs. n. 152/2006, detto anche Codice o Testo Unico Ambientale, che ha dato attuazione alla Direttiva europea, riprende, in modo un po’ confuso, il regime di responsabilità ambientale europeo duale.
Difatti, ai sensi dell’art. 298 bis, I comma, il regime di responsabilità oggettiva trova applicazione nei casi di danno o minaccia imminente di esso prodotti da un’attività professionale rientrante tra quelle considerate pericolose dall’Allegato 5 alla Parte Sesta; mentre il regime di responsabilità colposa trova attuazione nelle ipotesi di pregiudizio o minaccia imminente di esso cagionati da un’attività professionale non ricompresa nel predetto allegato.
Il comma, inoltre, non fa riferimento al rischio per l’ambiente o la salute umana dell’attività, pericolosa o meno, esercitata dall’operatore, previsto invece dalla direttiva europea. Piuttosto, viene introdotto il vago concetto di “rilevanza ambientale”, di matrice sicuramente non europea, laddove, all’art. 302, IV comma, viene definito l’operatore quale unico soggetto potenzialmente responsabile:
«qualsiasi persona, fisica o giuridica, pubblica o privata, che esercita o controlla un’attività professionale avente rilevanza ambientale oppure chi comunque eserciti potere decisionale sugli aspetti tecnici e finanziari di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell’autorizzazione a svolgere dette attività».
Ma vi è di più: la distinzione tra le due forme di responsabilità ambientale non si esaurisce con il dettato del I comma dell’art. 298 bis, perché, più appresso, l’art. 311, II comma, la ribadisce, seppure con una variante di non poco conto.
Infatti, secondo il tenore della disposizione, al di fuori dell’ipotesi di responsabilità ambientale oggettiva è palesemente responsabile «chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa». Non più, quindi, solamente l’operatore che esercita un’attività professionale a rilevanza ambientale non rientrante tra quelle di cui all’Allegato 5 alla Parte Sesta, ma “chiunque altro”, qualsiasi responsabile.
Si noti, tuttavia, che la direttiva europea utilizza concetti come “il responsabile” solo tra le considerazioni generali in premessa, ma agli articoli, poi, specifica inequivocabilmente che la responsabilità ambientale è dell’operatore, ossia colui che esercita un’attività professionale rischiosa per l’ecosistema e non “chiunque altro”!
La disposizione induce chiaramente in errore, perché sembrerebbe che nelle ipotesi colpose qualsiasi persona fisica o giuridica possa considerarsi responsabile per un danno all’ambiente!
Né si comprende perché il legislatore italiano abbia voluto ripetere lo schema del regime di responsabilità duale in due articoli diversi dello stesso testo normativo e per quale ragione abbia inteso apporre la variazione concettuale in questione in uno soltanto dei due articoli.
Oltretutto, il principio internazionale che imputa gli oneri della prevenzione e riparazione dei danni ecologici in capo al responsabile della minaccia o del pregiudizio, non vieta che nel concetto di responsabile possa essere pienamente ricompreso, in via solidale, anche lo Stato nel quale è esercitata l’attività dell’operatore.
La stessa esaminata Direttiva europea lascia agli Stati membri dell’UE (Italia inclusa) la facoltà di avallare disposizioni che vincolano altri soggetti, oltre all’operatore, agli obblighi ivi contenuti (v. Art. 16.1). Per di più, il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, fa salva la competenza degli Stati membri a potere negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi per rafforzare il proprio impegno e migliorare gli standard di tutela ambientale (v. Art. 191, par. 4, II comma). Infine, è bene ricordare che con la recente Legge costituzionale n. 1/2022, in Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22/02/2022, è stato inserito tra i principi fondamentali della Costituzione italiana il preciso dovere dello Stato di tutelare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi (v. art. 9, III comma, Cost.).
Pertanto, il consolidamento di una responsabilità ambientale solidale/alternativa dello Stato in cui è esercitata l’attività professionale dell’operatore, salvo l’eventuale regresso verso quest’ultimo, sarebbe possibile e decisamente auspicabile. E potrebbe concretizzarsi anche attraverso una pattuizione internazionale sulla responsabilità ambientale in grado di codificare le regole di diritto ambientale generalmente riconosciute, come auspicata dalla stessa Dichiarazione di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972 (v. Principio 22).
Ciò soprattutto per garantire la concreta prevenzione e riparazione del danno all’ecosistema nei casi in cui l’operatore non sia identificabile o solvibile, oppure sia esente dai relativi obblighi nei casi previsti dalla legge. Con l’estensione, ovviamente, di detta forma di responsabilità anche agli Stati interessati dal medesimo danno ambientale a “carattere diffuso”, nelle ipotesi di mancata individuazione dell’operatore.
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