di Roberto Losengo – Carlo Melzi D’Eril
CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 24 gennaio 2023 (dep. 27 aprile 2023), n. 17400 – Pres. Ramacci, Est. Di Nicola – Ric. C.
CASSAZIONE PENALE, Sez. III – 15 febbraio 2023 (dep. 18 maggio 2023), n. 21187 – Pres. Ramacci, Est. Aceto – Ric. C.
Il reato di inquinamento ambientale è un reato di danno integrato da un evento di danneggiamento cagionato, in via alternativa, dal deterioramento (inteso come riduzione del bene che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce, anche parzialmente l’uso, o rende necessaria un’attività non agevole per il suo ripristino) o dalla compromissione (intesa come squilibrio funzionale attinente alla relazione del bene con l’uomo e ai bisogni e interessi che lo stesso deve soddisfare).
L’inquinamento deve essere significativo e misurabile, dunque presentare caratteri non irrilevanti; allo stesso tempo non è richiesta la tendenziale irreversibilità del pregiudizio, tipica del reato di disastro ambientale; sino a quando gli effetti pregiudizievoli non diventano irreversibili, le condotte poste in essere successivamente all’originario evento di compromissione o deterioramento costituiscono atti di una singola azione lesiva che spostano in avanti la consumazione del reato.
- Le fattispecie concrete esaminate dalle sentenze.
Con le due recenti sentenze in commento, la Corte di Cassazione (nel primo caso, in un procedimento cautelare, nel secondo a fronte di ricorso avverso una condanna parzialmente confermata in appello) è tornata sugli aspetti definitori degli elementi costitutivi del reato, ribadendo posizioni già antecedentemente espresse e che potrebbero ormai considerarsi – pur a fronte di non sopite perplessità della dottrina – il c.d. formante giurisprudenziale della fattispecie di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 bis c.p.
“Potrebbero” poiché la radicale mancanza di tassatività, evidente a quasi qualunque commentatore, benché sbrigativamente negata dalla giurisprudenza, non favorisce l’interprete che, quando ha mano troppo libera nel tracciare le linee descrittive della fattispecie, rischia di imbrogliarsi da solo, a volte addirittura ritenendo superfluo soffermarsi su un dato che ci pare non irrilevante, ovvero una minima descrizione del fatto concreto, tanto da non far comprendere perché esso sia riconducibile al delitto ritenuto sussistente, come accaduto in uno dei due casi di cui ci occupiamo.
La prima vicenda riguarda il sequestro di un’area estrattiva (già peraltro oggetto di restituzione prima della trattazione del ricorso) e di un mezzo operativo adibito a un’attività di escavazione perdurata in epoca successiva alla scadenza dell’autorizzazione rilasciata dal competente Distretto minerario (e, in quanto tale, ritenuta abusiva).
Il Tribunale del riesame, investito del gravame avverso il provvedimento ablativo, lo aveva confermato rilevando il fumus del reato di inquinamento, considerando che l’attività non autorizzata aveva interessato porzioni estese e significative del bene protetto (suolo e sottosuolo), senza vi fosse necessità – per pervenire all’accertamento del reato – di specifici accertamenti tecnici; essenzialmente tesa a mostrare la inutilità di un contributo specialistico, la motivazione, come anticipato, non precisa il fatto e la ragioni per cui esso concretizzerebbe la fattispecie in questione.
La seconda questione concerne anch’essa l’attività svolta nell’ambito di un sito di cava (rispetto alla quale l’escavazione non appare soggetta a rilievi), a cui – secondo la ricostruzione fattuale fatta propria dalla Suprema Corte – sarebbero seguiti l’interramento, il tombamento e la compattazione al suolo originario di rifiuti conferiti per il trattamento in un adiacente impianto di recupero ma che sarebbero invece stati utilizzati tal quali per il riempimento dell’area escavata, senza dunque raggiungere i requisiti per eventualmente ritenerle cessata la qualifica di rifiuto (cioè per considerarli come c.d. End of Waste).
Per quanto si intende dalla sentenza, nell’ambito del giudizio di merito avevano spiegato particolare rilevanza le conclusioni assunte dal consulente tecnico della Procura, che aveva individuato una relazione causale tra la presenza dei rifiuti e il superamento di valori di contaminazione per le acque sotterranee e per i siti ad uso verde pubblico e residenziale.
Gli accertamenti di merito, infine, avevano comprovato che le attività di interramento, iniziate prima dell’entrata in vigore della L. 68/2015, erano proseguite sino al sequestro dell’area, avvenuto nel 2016.
- La qualificazione giuridica dei fatti in contestazione quali ipotesi di inquinamento ambientale
Entrambe le sentenze richiamano in motivazione i precedenti giurisprudenziali in base ai quali le Autorità Giudiziarie hanno definito (talvolta “riempiendo di significato” alcuni requisiti della fattispecie altrimenti alquanto labili) gli elementi costitutivi del reato di inquinamento ambientale.
In particolare, con la sentenza n. 21187, la Corte (che mediante il ricorso era stata investita anche di una questione di legittimità costituzionale proprio in ordine alla determinatezza della fattispecie), si è espressa, prospettando quasi una sorta di vademecum riepilogativo dei pregressi arresti[1], sui seguenti temi:
- le condotte di compromissione e deterioramento: inizialmente la sentenza n. 21187 ricalca i precedenti in materia, secondo la quale i due termini esprimono una condotta alternativa ma sostanzialmente equivalente negli effetti, risolvendosi in entrambi i casi in una condotta di alterazione o modifica peggiorativa dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, che nel caso della compromissione si declina quale “squilibrio funzionale”, perché incidente sui normali processi naturali della stessa matrice o dello stesso ecosistema, mentre nel caso del deterioramento quale “squilibrio strutturale”, ovvero da un decadimento di stato o di qualità dei medesimi.
Il deterioramento, in particolare, è configurabile quanto la condotta produce una modificazione della cosa che ne diminuisce in misura apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio che si manifesti come non agevole.
Tuttavia, nel corpo della motivazione, l’estensore cita svariate decisioni della Corte che spiegano il significato in particolare del termine “deterioramento”.
Più precisamente, sono menzionati alcuni precedenti anteriori al 2015 e relativi in particolare al danneggiamento, a dimostrazione del fatto che l’indirizzo riferito al più moderno delitto troverebbe le proprie radici in una tradizionale linea interpretativa; le sentenze riportate in ordine al delitto di cui all’art. 635 c.p. riconducono il deterioramento alla ridotta utilizzabilità della matrice o a una temporanea inidoneità allo scopo per cui l’uomo ne usufruiva.
Poco dopo, il testo ribadisce che la compromissione, che nel linguaggio giuridico si manifesta come un modo di manifestarsi del danneggiamento, coglie del danno non l’aspetto quantitativo, ma – appunto – quello funzionale, in quanto evoca la “relazione tra l’uomo e i bisogni o gli interessi che la cosa deve soddisfare”.
La sentenza n. 17400 affronta il tema ribadendo anch’essa il tenore dei primi arresti della Corte.
- il carattere significativo e misurabile del danneggiamento: il termine “misurabile” denota ciò che è “quantitativamente apprezzabile o comunque oggettivamente rilevabile” (assolvendo quindi alla funzione di attribuire al fatto una dimensione oggettiva), mentre il termine “significativo” denota “incisività e rilevanza”.
Ad avviso della Corte, le espressioni, lungi dall’esporsi a censure di indeterminatezza, fungono anzi da canone di garanzia, in quanto escludono dalla sfera di incriminazione tutte quelle condotte che – pur espressione di un’attività abusiva e lesiva della matrice ambientale – siano oggettivamente prive di rilevanza o comunque abbiano determinato una compromissione o un deterioramento della matrice ambientale pur misurabile, ma non manifestato “in modo certo, evidente, chiaro”.
I concetti di significatività e misurabilità consentono quindi di “elevare il grado di offensività dell’evento delittuoso, espungendo dall’area della penale rilevanza quelli che tali non sono o che non lo sono in modo considerevole, importante, non indifferente, notevole, ragguardevole, rilevante”.
La condotta del reato di inquinamento costituisce quindi uno ‘spartiacque’, collocandosi “nell’area intermedia che va dell’irrilevanza del fatto alle dimensioni descritte dall’art. 452 quater c.p.”, senza che siano prospettabili “zone franche” tra le condotte di inquinamento e quelle di disastro;
- la consumazione del reato: la circostanza che l’evento di danno riferibile al reato di inquinamento si “arresti” prima di pervenire a caratteri di irreversibilità tipici della più grave fattispecie di disastro, fa sì che il reato, giunto a consumazione nel momento in cui si configurano elementi di compromissione e deterioramento significativi e misurabili, sia ulteriormente integrato da eventuali condotte successive, che non costituiscono un post factum, ma vanno a procrastinare il tempus commissi delicti, sino a quando il danno non diventi tendenzialmente irreversibile (e dunque possa configurarsi un evento di disastro)[2].
- il rapporto con i limiti imposti dalla disciplina di settore: la dimensione oggettiva dell’evento non è necessariamente correlata al superamento dei limiti imposti dalla normativa di settore, che di per sé non implicano necessariamente una situazione di danno; al contrario, peraltro, possono rilevarsi casi per cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, la situazione pregiudizievole per l’ambiente sia di macroscopica evidenza.
I parametri della normativa di settore possono comunque costituire un indice di riferimento nel caso in cui lo scostamento da standard prefissati e la ripetitività dell’inosservanza delle soglie integrino un elemento concreto di giudizio circa la significatività del fenomeno;
- la natura del reato: si tratta senza alcun dubbio di un reato di danno, causalmente orientato, in quanto il concetto di compromissione e danneggiamento, benchè non siano espressione di un effetto irreversibile, sono chiaramente indicativi di un “risultato di danno”, cioè di una condotta che ha determinato un evento dannoso;
- la nozione di abusività: il concetto, che pure restringe la portata del precetto penale, limitando appunto la rilevanza delle condotte di compromissione o deterioramento alle sole attività abusive, va comunque inteso in senso ampio, ricomprendendo non solo quelle svolte in assenza di autorizzazioni, o sulla base di autorizzazioni illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quelle poste in essere in violazione di leggi statali o regionali, ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale, ovvero di prescrizioni amministrative.
La sentenza n. 17400, poi, richiama in particolare l’orientamento in base al quale, sotto il profilo soggettivo, si tratta di reato a dolo generico, per la cui punibilità è richiesta la volontà di porre in essere una condotta abusiva e la consapevolezza di poter determinare un inquinamento, essendo quindi il fatto punibile anche a titolo di dolo eventuale.
Il tema dell’elemento soggettivo risulta peraltro incidentalmente affrontato anche dalla sentenza n. 21187, laddove si richiama la decisione del Giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto (senza essere oggetto di censure) che il reato fosse ascrivibile agli imputati a titolo di colpa in quanto, benché gli stessi avessero consapevolmente e volontariamente proseguito l’escavazione oltre i limiti assentiti ed effettuato il tombamento con rifiuti, non vi erano elementi per affermare che vi fosse la consapevolezza (o l’accettazione del rischio) di determinare anche un inquinamento ambientale in termini di decadimento qualitativo del suolo.
- Osservazioni e commenti
Le sentenze in commento offrono molti spunti di riflessione; proviamo ad accennarne soltanto alcuni, seguendo la partizione di argomenti con cui sono stati sopra sintetizzati i temi trattati.
Anzitutto, le nozioni di compromissione e deterioramento. Da quando il delitto in questione è stato introdotto nel nostro ordinamento abbiamo, in buona compagnia, sottolineato come la principale caratteristica della nuova fattispecie fosse una evidente carenza di precisione e tassatività[3]. In particolare, a nostro, ma non solo nostro[4], avviso, il legislatore non aveva tracciato, con mano non abbastanza ferma per essere costituzionalmente bene orientata, la linea che separa il lecito dall’illecito: era chiaro che l’art. 452 bis c.p. puniva chi inquinava molto, ma quanto fosse questo “molto” nessuno era in grado di stabilirlo, stando alle scelte lessicali della novella.
Ciò è tanto vero che in (febbrile) attesa della prima decisione della Cassazione, la dottrina ha dato interpretazioni diversissime del significato di “compromissione” e di “deterioramento” fin dai primi studi in argomento[5]; la giurisprudenza invece si è celermente assestata su un’unica e sola parafrasi dei termini che descrivono il fatto[6].
Non è però irrilevante che gli studiosi della materia abbiano (e non per gusto di mera celia) univocamente segnalato un “campanello d’allarme”, rappresentando come i significati che può avere il testo normativo siano troppo numerosi per il canone di tassatività dell’art. 25 Cost., mentre uno di tali possibili significati, nel senso indicato dalla prima sentenza in materia, sia stato poi sottoscritto, forse un po’ acriticamente, da tutte le altre.
“Deterioramento” indica un decadimento strutturale, mentre “compromissione” uno funzionale, questo il refrain ripetuto in ogni arresto dopo quello iniziale.
Peculiare, allora, che la sentenza n. 21187 citi una giurisprudenza in materia di danneggiamento, in base alla quale il deterioramento implica essenzialmente un decadimento funzionale (cioè un’inservibilità per l’uso della matrice) e non, come affermato dall’attuale orientamento, un decadimento strutturale. E ciò, appunto, senza affatto sottolineare di discostarsi dall’unico indirizzo oggi noto, anzi richiamandolo come quello a cui pure essa intenderebbe attenersi.
Un simile lapsus (se tale deve considerarsi) sembra assai curioso e viene da pensare che sia l’ennesima dimostrazione, appunto, di una tale carenza di precisione del testo normativo che ogni interpretazione può essere bene accetta, poiché molte, anche molto diverse tra loro, risultano compatibili con la incerta lettera della legge.
In altri termini, anche quest’ultimo significato del termine “deterioramento” (ciò intenderlo come decadimento funzionale piuttosto che strutturale), tra i molti possibili, è ben plausibile.
Non è dunque la sentenza a essere “sbagliata”, in quanto – appunto – l’interpretazione proposta non appare, in sé, errata: ciò che continua a lasciare perplessi è l’abdicazione del legislatore (in favore del formante giurisprudenziale) al proprio potere-dovere di specificare gli elementi del precetto penalmente sanzionato, a cui il cittadino deve essere in grado di (previamente e coscientemente) informarsi per orientare la propria condotta.
Quanto sostenuto nella sentenza a proposito dei parametri della significatività e della misurabilità pure merita un cenno.
Ribadiamo, a proposito dell’aggettivo “significativi” riferito a compromissione e deterioramento, la convinzione che anch’esso contribuisca ad annebbiare i tratti della fattispecie[7] che invece dovrebbe contribuire a rendere netti, come previsto dalla Costituzione: la scelta del legislatore di aggiungere un simile aggettivo qualificativo ai sostantivi che dovrebbero descrivere l’evento, porta, infatti, in termini di tassatività, soltanto ulteriore confusione.
Se con “significativo” si intendeva introdurre un sinonimo di “molto”, avendo cura di usare un termine più ricercato, l’operazione risulta da un lato velleitaria, dall’altro indice di una imperizia tecnica nella redazione delle disposizioni che è difficile accettare.
Velleitaria poiché già le parole “compromissione” e “deterioramento” contengono in sé una incisione notevole del bene ambiente, sicché se lo scopo dell’aggettivo era quello di escludere gli eventi di minor peso, si tratta di una violazione del noto principio del rasoio di Occam: evitare le attività inutili.
L’imperizia tecnica, poi, è rivelata, se non altro, dall’uso, nella descrizione di un delitto, non soltanto di un aggettivo qualificativo di una certa vaghezza, ma per di più di una parola che non delinea un parametro concreto, anche elastico, ma che viene utilizzata in senso metaforico.
Il primo senso del termine “significativo” è infatti quello di “portare significato”, va da sé estraneo al contesto di cui si tratta; l’estensore si perita infatti di elencare una serie di sinonimi che, in buona sostanza, corrispondono – come abbiamo anticipato – al meno elegante termine “molto”.
Si intende, e si condivide, che la decisione n. 21187 intende (ed è in tal senso che viene rigettata la questione di costituzionalità) esprimere una posizione di tutela “per sottrazione”, specificando che il concetto di “molto” (nelle varie forme aggettivali in cui può essere declinato) non include quelle condotte che non siano “considerevoli, importanti, non indifferenti, notevoli, ragguardevoli, rilevante”.
Tuttavia un simile utilizzo porta con sé, inevitabilmente, ulteriore fumosità e imprecisione (ancora una volta, quanto deve essere questo “molto”, o anche “considerevole”, “importante”, e così via, per dare un indirizzo interpretativo uniforme dalla Valle d’Aosta a Capo Passero?): il contrario di quanto dovrebbe invece caratterizzare le disposizioni incriminatrici.
Oggi poi, scopriamo un senso inedito e, dobbiamo dire, inaspettato, dei termini in esame, che secondo la sentenza in esame, infatti, essi sarebbero anche sinonimo di “chiaro ed evidente”. Ora, è vero che a differenza delle “scienze dure” quelle cosiddette umanistiche hanno maggiore libertà di argomentazione, poiché a differenza dei numeri le parole sono più manipolabili, ma deve esservi un limite oltre il quale non ci si può spingere nell’arricchire il campo semantico di un segno. Altrimenti proprio le parole perdono la loro prima funzione all’interno dell’ordinamento: quella di arginare l’arbitrio.
A proposito del requisito della misurabilità, invece, è davvero curioso come (nella sentenza n. 17400) si insista nell’escludere che tale riferimento implichi la necessità di misurare quanto l’evento abbia modificato in negativo la matrice bersaglio del fatto illecito.
Compromissione e deterioramento sono infatti concetti di relazione: il fatto deve avere peggiorato l’ambiente tanto e in modo tale da superare il limite (mal) descritto dalla disposizione.
Pare indispensabile, quindi, affidarsi ad analisi tecniche in casi come questi, in cui spesso, per non dire sempre, la valutazione di un esperto può consentire di dare rigore e concretezza a una fattispecie che ne è tristemente priva.
Rifugiarsi nella osservazione per cui vi possono essere casi in cui la lesione al bene giuridico protetto dalla norma è di tale macroscopica evidenza da non avere bisogno di un apposito accertamento, significa affidarsi in modo un po’ semplicistico ad un’affermazione che prova insieme troppo e troppo poco[8]. Da una parte, gli inquinamenti evidenti per così dire anche ad occhio nudo ben possono – e quindi diremmo debbono – essere certificati da un accertamento di taglio scientifico per dare loro quella dignità che soltanto consente di avere cittadinanza all’interno di una sentenza; dall’altra un simile brocardo, già troppo spesso ripetuto rischia di legittimare “pigrizie” investigative e di compromettere (absit iniuria verbis) la rappresentatività di accertamenti tecnici, sovente di natura irripetibile.
A proposito del momento consumativo del reato, la Corte precisa, ancora una volta rifacendosi a precedenti decisioni, come il fatto di inquinamento viene integrato dal realizzarsi degli eventi di compromissione o deterioramento significativi e misurabili, finché, l’evento non diventi, ad esempio, tendenzialmente irreversibile, circostanza che tramuta il delitto in disastro ambientale. Ciò, prosegue la Cassazione, implica che contaminazioni successive a quella che ha determinato la sussistenza del reato non costituirebbero post facta non punibili, ma si limiterebbero a spostare in avanti la consumazione del reato.
Non è questa la sede per approfonditi dibattiti dottrinali, tuttavia alcuni interrogativi meritano di essere posti sul tavolo sin d’ora, per prevenire che ulteriori letture “tralatizie” e non contestualizzate della massima espressa (qui ci pare in modo corretto) possano portare a interpretazioni aberranti.
E dunque, nei casi di contaminazioni storiche, assai frequenti nel nostro Paese, in un sito interessato da un inquinamento o da un disastro che rinviene le proprie radici lontano nel tempo, con magari qualche condotta successiva al 2015, qualunque ulteriore sversamento consente di spostare in avanti la consumazione dei delitti di inquinamento o disastro?
Più precisamente, questo effetto si avrebbe qualunque sia la entità del contributo e qualunque sia la sostanza mediante la quale è stata realizzata la contaminazione?
Ancora: nel caso di un sito in cui vi sia stata già una sentenza passata in giudicato che ha certificato la presenza di un inquinamento o di un disastro, ulteriori contaminazioni dello stesso luogo, a che condizioni possono essere punite e mediante quale reato?
Ad esempio, in un sito industriale ove è stata riconosciuta la sussistenza di un disastro ambientale, con sentenza passata in giudicato, quale condotta può determinare una successiva condanna per inquinamento o disastro: è sufficiente un aggravamento purchessia della contaminazione oppure è necessario (come riteniamo preferibile credere) che rispetto alla situazione anteriore la ultima condotta determini l’evento descritto dai delitti in questione?
Infine, per quanto riguarda sempre la descrizione del fatto, la Corte ribadisce come quello di cui all’art. 452 bis c.p. sia un reato di danno poiché, qualunque sia il significato da attribuire a “compromissione” e “deterioramento”, per di più significativi e misurabili, il delitto di cui si parla implica l’esistenza di una lesione effettiva al bene ambiente. Non si può che essere d’accordo con una simile conclusione, emergente da entrambe le sentenze che tuttavia, confrontate sul punto proprio del fenomeno dannoso, mostrano un dato interessante.
Il caso della sentenza più ampia, infatti, delinea quantomeno l’esistenza di verifiche circa la compromissione qualitativa della matrice suolo, accertata tramite una consulenza tecnica.
In quello della vicenda cautelare, pare invece che la condotta abusiva di prosecuzione dell’escavazione, abbia semplicemente determinato un deterioramento in termini “riduzione” (sia pure in una porzione estesa della matrice), senza alcun fenomeno di contaminazione. E scriviamo “pare” perché nella motivazione i Supremi Giudici non spiegano affatto quale sia appunto il fatto. In altri termini, il lettore non è posto in grado di comprendere (o almeno noi non lo siamo stati), in concreto, quale sia stata la lesione subita dalla matrice ambientale considerata e tale da superare il confine del penalmente rilevante delineato dall’art. 452 bis c.p.
Si sarebbe cioè di fronte ad un caso di “inquinamento senza inquinamento”, o almeno di “inquinamento senza spiegazione”.
Crediamo che questo sia un altro effetto della mancanza di tassatività della fattispecie: definizioni sfilacciate consentono di far entrare nel perimetro dell’illecito pressoché qualunque fenomeno, circostanza che disabitua chi ne sarebbe onerato dal redigere motivazioni rigorose, fino alla loro sostanziale omissione.
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Cass. 17400_2023 (losengo-melzi)
cass-pen-sez-iii-21187_2023 (losengo-melzi)
NOTE:
[1] Ci si riferisce, per esempio, a Cass. pen., Sez. III, 6 aprile 2017, n. 39078, in www.lexambiente.it, 27 settembre 2017; Cass. pen., Sez. III, 6 luglio 2017, n. 52436, in www.lexambiente.it, 29 novembre 2017; Cass. pen., sez. III, 9 novembre 2017, n. 5834, in Dejure; Cass. pen., sez. III, 21 novembre 2017, n. 10808, in Dejure; Cass. pen., Sez. III, 30 marzo 2017, n. 15865, in www.lexambiente.it, 4 aprile 2017. Tra le ultime, Cass. pen., Sez. III, 20 ottobre 2022, n. 39759, in www.lexambiente.it, 20 ottobre 2022.
[2] La sentenza ha dunque ritenuto che i fatti potessero legittimamente essere puniti a titolo di inquinamento, in quanto le condotte di compromissione si erano protratte successivamente all’entrata in vigore della L. 68/2015.
[3] Tutti i primi commentatori hanno evidenziato l’indeterminatezza della fattispecie. Per approfondimenti, cfr. M. Telesca, Osservazioni sulla l. n. 68/2015 recante “disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”: ovvero i chiaroscuri di una agognata riforma, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 17 luglio 2015, pp. 21 ss.; si consenta anche il rimando a R. Losengo, C. Melzi d’Eril, La seconda sentenza in materia di inquinamento: tassatività e rapporti di vicinato, nota a C. pen. III, n. 46904/16, in questa Rivista, 2017, 2, pp. 286 ss., ed a R. Losengo, C. Melzi d’Eril, La Corte di cassazione e la questione di legittimità costituzionale del reato di inquinamento ambientale: una risposta troppo “veloce” ad una questione complessa, nota a C. pen. III, n. 10469/20, in questa Rivista online, 2020, XIII.
[4] Tra i primi si vedano F. D’Alessandro, La tutela penale dell’ambiente tra passato e futuro, in Jus, 2016, n. 1, pp. 83 ss. e A. L. Vergine, A proposito della prima (e della seconda) sentenza della Cassazione sul delitto di inquinamento ambientale, in Ambiente & Sviluppo, 2017, 1, pp. 5 ss.
[5] Rilievi anticipati e riassunti in C. Melzi d’Eril, Art. 452 bis c.p., in Aa. Vv., Codice dell’ambiente, a cura di S. Nespor e L. Ramacci, 2022, Milano, pp. 258 ss.
[6] Analizza gli approdi giurisprudenziali in modo esaustivo P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, 2022, Milano, pp. 129 ss.
[7] Sembra concordare sul punto T. Padovani, Legge sugli ecoreati, un impianto inefficace che non aiuta l’ambiente, in Guida al Diritto, 2015, 32, pp. 10 ss.
[8] Per una lettura del tema dal punto di vista scientifico, si veda F. Giampietro, Inquinamento e danno all’ambiente: dal TUA all’art. 452–bis cod. pen. (parte seconda), in Ambiente & Sviluppo, 2017, 6, p. 411.