di Roberto Losengo e Elisa Marini
Nell’attuale momento storico, caratterizzato da una notevole – e, a tratti, convulsa – produzione normativa, volta al contenimento dell’emergenza epidemiologica provocata dalla diffusione del Covid-19, assumono una importanza cruciale le disposizioni relative alle sanzioni applicabili nei casi di violazione delle restrizioni sugli spostamenti, attualmente previste su tutto il territorio nazionale.
Con i primi provvedimenti adottati dal Governo – ci si riferisce, in particolare, al Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito, con modificazioni, dalla Legge 5 marzo 2020, n. 13), ed ai Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 e del 9 marzo 2020 – è stata prevista la punizione dei trasgressori ai sensi dell’art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità)[i], che stabilisce, come noto, la pena dell’arresto fino a tre mesi, in alternativa all’ammenda fino a € 206, salvo che il fatto costituisse più grave reato.
Alcuni commenti hanno valorizzato la richiamata clausola di riserva, precisando come, al di là dell’art. 650 c.p. – sulla cui efficacia deterrente sono stati sollevati diversi (e legittimi) dubbi[ii], fino alla sua “sostituzione” con la sanzione amministrativa attualmente prevista[iii] – potessero altresì annoverarsi, tra le conseguenze penali astrattamente derivanti dal mancato rispetto dei divieti imposti per fronteggiare l’emergenza sanitaria:
- la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 260 del Testo Unico delle Leggi Sanitarie (R.D. 27 luglio 1934, n. 1265), che prevede la pena congiunta – e, dunque, non oblabile – dell’arresto da tre a diciotto mesi e dell’ammenda da € 500 € a € 5.000 [iv], nei casi di inosservanze di ordini legalmente impartiti dalle autorità per impedire la diffusione di una malattia infettiva.
Tale contravvenzione è stata, ad oggi, espressamente inclusa nell’art. 4, comma 6, D.L. n. 19/2020[v] quale sanzione per l’inosservanza delle restrizioni da parte di chi sia sottoposto a quarantena in quanto positivo al Covid-19, fatta salva (ricorrendone i presupposti) l’applicazione dell’art. 452 c.p. o di altro più grave reato;
- le fattispecie delittuose previste dagli artt. 495 e 483 c.p., in ipotesi di falsa attestazione resa in fase di controllo (attraverso il meccanismo dell’autocertificazione) concernente, nel primo caso, la sostituzione delle proprie generalità, e nel secondo, le ragioni dello spostamento;
- i reati di lesioni (artt. 582, 583 e 590 c.p.) e omicidio (artt. 575, 584, 589 c.p.), nelle varie declinazioni dipendenti dall’elemento soggettivo, nonché, nel primo caso, dalla gravità;
- i reati di epidemia, dolosa e colposa, rispettivamente previsti dagli artt. 438 e 452 c.p., che costituiscono l’oggetto dell’odierno approfondimento.
La fattispecie dolosa di cui all’art. 438 c.p. punisce, con la pena dell’ergastolo, “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”; quella di cui all’art. 452 c.p. estende l’operatività della medesima incriminazione alle fattispecie colpose, stabilendo, in tali ipotesi, la pena della reclusione da 1 a 5 anni.
Prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 19/2020, la configurabilità del reato di epidemia era stata ipotizzata esclusivamente sul piano ermeneutico, mentre – come già accennato – con il menzionato provvedimento è stata prevista, seppur in via residuale e con esclusivo riferimento all’ipotesi colposa, anche a livello normativo: “Salvo che il fatto costituisca violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 2, lettera e), è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7.” (art. 4, comma 6).
Essendo l’applicabilità dell’art. 452 c.p. limitata alla violazione di cui all’art. 1, comma 2, lett. e) del Decreto Legge, l’eventuale contestazione del reato è stata appunto circoscritta alle persone sottoposte alla misura della quarantena, in quanto risultate positive al virus, che violino il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora.
L’innesto dei delitti colposi contro la salute nell’apparato sanzionatorio elaborato in materia di contenimento del Covid-19 impone, dunque, l’approfondimento delle riflessioni che, sin dall’emanazione dei primi provvedimenti emergenziali, avevano coinvolto gli operatori del diritto.
Prima di focalizzare l’analisi giuridica nell’ambito dell’attuale contesto epidemiologico, si ritiene opportuna una sintetica premessa di carattere definitorio.
La giurisprudenza ha descritto l’epidemia come una malattia caratterizzata da una pluralità di elementi, tra i quali ha individuato: il carattere contagioso; la rapidità della diffusione e la durata limitata del fenomeno; il numero elevato delle persone colpite, tale da destare un notevole allarme sociale ed il correlato pericolo per un numero indeterminato e significativo di persone; un’estensione territoriale di una certa ampiezza, tanto da interessare uno spazio geografico abbastanza vasto da meritare il nome di regione e, di conseguenza, una comunità abbastanza numerosa da potersi definire popolazione[vi].
Anche in ambito civilistico, le Sezioni Unite della Suprema Corte[vii] hanno affermato che gli elementi che connotano il reato in esame sono:
“a) la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti;
- b) l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto;
- c) il carattere contagioso e diffuso del morbo e la durata cronologicamente limitata del fenomeno”.
Sul piano squisitamente teorico, antecedentemente all’ultimo intervento legislativo, si sarebbe potuto ipotizzare che al soggetto che avesse avuto contezza di essere affetto da Covid-19, e che, nonostante ciò, non avesse desistito dal proposito di uscire dalla propria abitazione e di avere contatti sociali con una pluralità di persone, così determinando l’evento epidemico, avrebbe potuto essere contestato il reato in esame nella forma del dolo eventuale, consistente nell’accettazione del rischio della diffusione del virus correlata alla propria condotta.
Avrebbe invece potuto rispondere, a titolo di colpa, il soggetto affetto da Covid-19 che avesse tenuto le medesime condotte e provocato il medesimo evento, ritenendo, tuttavia, di non aver contratto il virus pur presentandone la tipica sintomatologia, e dunque, essenzialmente, per negligenza o imprudenza.
La disposizione relativa alle sanzioni, prevista all’art. 4 D.L. n. 19/2020, propende espressamente per la possibile riconducibilità all’ambito colposo di cui all’art. 452 c.p. delle condotte di inosservanza commesse dalle “persone risultate positive al virus” (dunque, da parte di soggetti che, essendo sottoposti alla quarantena, hanno precisa conoscenza di avere contratto il Covid-19), anche se l’ampia clausola di riserva fa comunque salvo ogni “più grave reato”.
Per quanto l’addebito colposo abbia astrattamente più chances di essere contestato, è indubbio che, sulla base delle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza in tema di epidemia sotto il profilo oggettivo, il delitto in esame non appaia facilmente configurabile nemmeno nella declinazione psicologica meno grave, nella casistica che può ipotizzarsi in tema di Covid-19.
Posto che il richiamo operato all’art. 452 c.p. non è meramente quoad poenam (come invece potrebbe ritenersi per l’art. 260 T.U.L.S.), affinchè il reato possa essere contestato – e “reggere” all’indispensabile accertamento processuale – dovranno sussisterne specificamente i presupposti, tali da consentire l’upgrade rispetto alla fattispecie contravvenzionale.
Secondo la più recente interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione[viii], sulla scorta dell’indirizzo ermeneutico maggioritario[ix], la nozione giuridica di epidemia è più ristretta di quella accreditata dalla scienza medica: mentre quest’ultima include “ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui”, la prima circoscrive la punibilità alle condotte caratterizzate da “determinati percorsi causali”, in assenza dei quali il fatto difetta di tipicità.
L’epidemia costituisce, dunque, “l’evento cagionato dall’azione incriminata, la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso”[x].
La nozione giuridica differisce, dunque, da quella scientifica non sotto il profilo della potenzialità di diffusione della patologia, senz’altro richiesta per la configurazione dei reati di cui agli artt. 438 e 452 c.p., ma solo per la specificità del processo causale con cui la medesima patologia si trasmette (mediante la diffusione di germi patogeni).
A riprova di ciò, la sussistenza dell’epidemia è stata esclusa nei casi in cui la malattia infettiva non aveva caratteristiche tali, quanto a vastità e “diffusibilità”, da configurare un pericolo alla salute di un numero rilevante e indeterminato di persone[xi].
Del resto, è la stessa etimologia del termine – dal greco epi demos, letteralmente “sopra il popolo”, e cioè “esteso sul popolo” – a deporre in tal senso.
Come stabilito dalla Corte di Cassazione[xii], infatti, “La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile a quei germi patogeni, che da un evento di pericolo, rappresentato dalla ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui, anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione”.
Potrebbe dunque apparire dubbio, specialmente nell’attuale contesto sociale in cui i contatti interpersonali sono necessariamente limitati e circoscritti, che la violazione del divieto di lasciare la propria residenza o dimora, da parte di un soggetto affetto dal Covid-19, debba considerarsi effettivamente caratterizzata dalla capacità diffusiva indicata dall’interpretazione giurisprudenziale della fattispecie incriminatrice.
Ma, soprattutto, si prospettano diverse problematiche connesse alla dimostrazione del nesso di causalità tra condotta ed evento che, pur in presenza di una casistica che darà probabilmente corso a numerose comunicazioni di notizia di reato[xiii], incideranno necessariamente – ed in maniera determinante – sul suo accertamento in ambito processuale[xiv].
Ipotizziamo ad esempio il caso di un soggetto che, in violazione del divieto, si rechi in un negozio di vendita al dettaglio di generi alimentari, causando il contagio degli esercenti ed eventualmente di altri acquirenti, e alla soglia del negozio sia sottoposto ad un controllo che riscontri l’inosservanza; ipotizziamo ancora che dopo alcuni giorni i titolari del negozio (e magari anche altri acquirenti) avvertano i sintomi della malattia, e che tali circostanze diano corso ad un’indagine per il reato di epidemia colposa.
Anche in questa casistica (non improbabile per quanto riguarda l’accesso ad un esercizio commerciale di un soggetto portatore del virus, meno plausibile per quanto concerne l’evenienza del controllo nelle modalità indicate), che pure parrebbe rappresentare un possibile nesso causale tra condotta e diffusione del contagio, l’accertamento eziologico appare oggettivamente “diabolico”: occorrerebbe, infatti, dimostrare una diretta ed esclusiva derivazione del contagio dal contatto con il soggetto che ha violato la quarantena, e dunque, in buona sostanza, che le persone contagiate fossero con certezza sane prima dell’accesso al negozio della persona affetta dal virus e che (con altrettanta certezza) non abbiano contratto la patologia in un successivo momento ed in diverse circostanze fattuali.
Appare evidente che, almeno fino a quando la tecnologia e le risorse sanitarie pubbliche o private non consentiranno un accertamento “giorno per giorno” dello stato di salute dei cittadini, il conseguimento di tale prova in sede processuale (anche a fronte di un contesto, come quello esemplificato, in cui il nesso eziologico potrebbe a prima vista apparire probabile) avrà estrema difficoltà a superare il ragionevole dubbio all’esito della verifica controfattuale.
Per tale motivo, dunque, anche se è prevedibile che la disposizione normativa possa condurre all’apertura di numerosi procedimenti penali per questa figura di reato, sinora abbastanza poco frequentata, pare difficile prospettare che le conseguenti ed eventuali imputazioni possano agevolmente portare ad affermazioni di responsabilità nei confronti dei soggetti affetti dal virus che non abbiano osservato l’obbligo di quarantena.
Caso diverso è, invece, quello in cui l’epidemia venga a diffondersi a causa dell’inosservanza di altre disposizioni cautelari, relative, ad esempio, alle norme in materia di sicurezza sul luogo di lavoro (anch’esse, peraltro, caratterizzate da notevoli problemi di accertamento, sia sotto il profilo causale, che sotto quello della prevedibilità dell’evento); ipotesi che, tuttavia, appaiono del tutto indipendenti rispetto a quella dell’art. 4 D.L. n. 19/2020, che è, in sostanza, rivolta al singolo individuo.
In tal senso alcuni commenti hanno sottolineato – rispetto all’emergenza sanitaria in corso, ma prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 19/2020 – come “Anche in via del tutto astratta, infatti, pare difficile sostenere che un soggetto isolato, per quanto imprudente, sia da sé solo in grado di mettere in pericolo una platea indeterminata di persone. Allo stesso modo, riteniamo di escludere che possa essere contestato il reato di epidemia (art. 438 e 452 c.p.) che punisce chiunque la cagiona mediante la diffusione di germi patogeni. La giurisprudenza, infatti, ha sempre negato la configurabilità di questi reati nella condotta di chi “semplicemente”, sapendosi affetto da male contagioso, continui a circolare magari anche diffondendo la malattia”[xv].
Tali dubbi sulla configurabilità del reato in esame non possono, dunque, che essere confermati alla luce dell’ultimo intervento legislativo, anche per ragioni dovute alle contingenze: il fatto che, per essere giuridicamente rilevante (e processualmente ricostruibile), il fenomeno epidemico debba coinvolgere una comunità di individui talmente numerosa da essere compatibile con il concetto di “popolazione”, sembra più difficilmente conciliabile con le possibilità concrete che ciò possa avvenire (ed essere adeguatamente dimostrato) alla luce delle vigenti restrizioni, che inibiscono in modo pressoché assoluto i contatti sociali, e delle limitazioni organizzative attualmente riscontrate nella “mappatura” del contagio.
L’inclusione esplicita, seppure in via residuale, dell’art. 452 c.p. nel novero delle sanzioni previste dall’art. 4 D.L. n. 19/2020 può dunque definirsi, rispetto alla specifica casistica del soggetto affetto da Covid-19 che violi la quarantena, un’operazione dall’efficacia deterrente più simbolica che effettiva, al contrario (quasi paradossalmente) di quanto può dirsi per le sanzioni di natura amministrativa previste per l’inosservanza alle restrizioni da parte del soggetto non infetto, che sia per l’importo, che per la diretta applicabilità, sono certamente più incisive ed immediatamente percepite rispetto alla contravvenzione oblabile dell’art. 650 c.p. inizialmente prevista, e fors’anche della contravvenzione ex art. 260 T.U.L.S., il cui accertamento necessiterà, comunque, dell’instaurazione di un procedimento penale.
Il che potrebbe, in astratto, suggerire – eventualmente in sede di conversione – di prevedere anche per i soggetti di cui all’art. 1, comma 2, lettera e) D.L. n. 19/2020 una sanzione amministrativa di importo significativamente elevato, fatta eventualmente salva l’ipotesi penale qualora il fatto costituisca un reato non contravvenzionale.
Dobbiamo tuttavia auspicare che, al di là della deterrenza di sanzioni più o meno afflittive, siano prima di tutto il buon senso e l’etica di appartenenza ad una comunità ad imporre a ciascuno il rispetto delle misure previste a tutela della nostra salute.
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Losengo-Marini_epidemia colposa
Note:
[i] Si vedano, in proposito, l’art. 3, comma 4, D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e l’art. 4, comma 2, D.P.C.M. 8 marzo 2020.
[ii] Le perplessità erano dovute al fatto che l’art. 650 c.p. è una contravvenzione estinguibile attraverso il meccanismo dell’oblazione di cui all’art. 162 bis c.p., che – come noto – prevede che nelle contravvenzioni per le quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, il contravventore possa essere ammesso, per estinguere il reato, a pagare una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda (nel caso di specie, ammontante a € 103), oltre le spese del procedimento.
[iii] Sostituzione effettuata per il tramite dell’art. 4, comma 1, D.L. 25 marzo 2020, n. 19.
[iv] Le sanzioni previste sono state modificate dall’art. 4, comma 7, D.L. 25 marzo 2020, n. 19, di cui per agio si riporta il testo: “Al comma 1 dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, le parole «con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire 40.000 a lire 800.000» sono sostituite dalle seguenti: «con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000»”.
[v] Prima della modifica operata dall’art. 4, comma 6, D.L. 25 marzo 2020, n. 19 – che, come detto, ha espressamente incluso l’art. 260 T.U.L.S. tra le sanzioni applicabili – alcune Procure (tra le quali quella di Milano) avevano già valutato l’applicazione di tale norma in luogo dell’art. 650 c.p., al fine di aumentare l’efficacia deterrente dell’apparato sanzionatorio, di fatto anticipando l’intervento legislativo.
[vi] Sul punto, Tribunale di Bolzano, 13 marzo 1979 e Tribunale di Savona, 6 febbraio 2008.
Secondo la prima pronuncia, la norma punisce chi cagiona l’epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche “in vivo” (per esempio, tramite animali da laboratorio), mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il vero e proprio “possesso” dei germi che la affliggono.
La seconda sentenza ha invece escluso la sussistenza del reato nell’ipotesi in cui l’insorgere e lo sviluppo della malattia si esauriscano nell’ambito di un ristretto numero di persone.
[vii] Corte Cass. civ., S.U., 11 gennaio 2008, n. 576.
[viii] Corte Cass. pen., Sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 9133.
[ix] Corte Cass. pen., Sez. IV, 26 gennaio 2011, n. 2597; nello stesso senso anche la relazione del Guardasigilli ai lavori preparatori del codice penale, in cui veniva sottolineata, a giustificazione della incriminazione e della gravità delle pene contemplate, “l’enorme importanza che ormai ha acquistato la possibilità di venire in possesso di germi, capaci di cagionare una epidemia, e di diffonderli…”.
[x] La sentenza ha altresì precisato come sia del tutto minoritario l’indirizzo dottrinario che ha inquadrato la fattispecie di cui all’art. 438 c.p. (e del correlato art. 452 c.p.) nella categoria dei c.d. “reati a mezzo vincolato”, anziché nell’ambito dei reati a forma vincolata.
[xi] In tal senso, Corte Cass. pen., Sez. IV, 18 maggio 2007, n. 19358, in relazione ad una sentenza emessa in data 21 aprile 2005 dal Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Trento (non impugnata sullo specifico punto), che aveva escluso la configurabilità del reato di epidemia alla luce del numero limitato di malati contagiati dal morbo della legionella all’interno di un ospedale, in quanto “non era consentito di esprimere un giudizio di rapida diffusione della malattia, in un dato territorio o nell’ambito di un gruppo demografico”.
Nello steso senso, Tribunale di Bolzano, 20 giugno 1978 e Tribunale di Roma, Sez. VII, 22 marzo 1982.
In quest’ultima sentenza, il Tribunale aveva ritenuto insussistente l’epidemia in un caso in cui la salmonella Wien aveva causato la morte di sedici neonati presso il nido di una clinica pediatrica, trattandosi di malattia infettiva non avente caratteristiche tali, quanto a vastità e diffusibilità, da configurare un pericolo alla salute di un numero rilevante e indeterminato di persone, tenuto conto della possibilità di mantenere circoscritto il fenomeno e di fronteggiarlo adeguatamente.
[xii] Sul punto, ancora Corte Cass. pen., Sez IV, 28 febbraio 2018, n. 9133.
[xiii] Sulle prime contestazioni in cui sarebbe stato ipotizzato il delitto di epidemia colposa, si richiama il caso di un cittadino di Codogno, risultato positivo al Covid-19, che non aveva osservato il divieto di uscire dalla propria abitazione dopo essere stato dimesso dall’ospedale in cui era stato ricoverato: https://www.ilcittadino.it/cronaca/2020/03/20/positivo-e-con-la-polmonite-si-fa-dimettere-dall-ospedale-e-lo-trovano-fuori-casa-denunciato/S8JdyDR2R75YJHJZGDcyx3/index.html
[xiv] Tali problematiche sarebbero ancor più evidenti nel caso di specie, essendo le modalità di trasmissione del virus ancora sotto l’analisi della comunità scientifica internazionale.
[xv] S. Lonati, C. Melzi D’Eril, Coronavirus, gli obblighi e i reati: le sanzioni solo dopo un processo, in www.ilsole24ore.com.
Si veda anche M. Micheli, Perché chi viola la quarantena non può essere accusato di “procurata epidemia”, in www.linkedin.com, secondo cui “Siamo quindi assai distanti dal caso del contagiato da Covid-19 che, consapevole del suo stato di salute, cammina per strada e, fermato dalla Polizia per un controllo, dichiara di essere sano. Si tratta, in concreto, di un comportamento che non ha la “diffusibilità” di cui parlano i Giudici”.