di Stefano Nespor
In questo mese di ottobre è stato pubblicato il Living Planet Report sulla salute della biodiversità globale. Il rapporto, elaborato a cadenza biennale dal 1998, analizza il declino di decine di migliaia di popolazioni di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi) in tutto il mondo. I dati fanno impressione: è infatti registrato un calo medio del 69% dell’abbondanza delle popolazioni di specie di vertebrati – mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci. Il calo più consistente, pari al 94% dal 1970 si è verificato in America Latina. Nello stesso periodo, le popolazioni monitorate in Africa sono diminuite del 66%, in Asia del 55%. Il calo è stato ridotto solo negli Stati Uniti e in Europa (circa il 20% sempre rispetto al 1970).
Sono dati che inducono ad amare riflessioni sui risultati raggiunti dalla Convenzione per la protezione della biodiversità (CBD), stipulata nel 1992 a Rio de Janeiro, insieme alla Convenzione per il contenimento del cambiamento climatico. Nel corso di trent’anni, la CBD si è rivelata inefficace per raggiungere gli obiettivi che si era prefissa: la biodiversità sta infatti gradualmente scomparendo (anche l’altra convenzione non ha avuto un grande successo, ma questo lo si sa).
Nello stesso tempo sono state prodotte montagne di documenti, risoluzioni e progetti elaborati da migliaia di funzionari da organismi, istituti e centri internazionali appositamente costituiti con un enorme investimento di risorse e di mezzi finanziari.
Se ci si ferma qui, tutto sembra ormai perduto per la conservazione della biodiversità.
Eppure, un altro rapporto, reso pubblico a pochi giorni di distanza dal Rapporto del WWF, offre qualche spiraglio di ottimismo. Si tratta dello studio della Zoological Society of London, riportato dal Guardian (From brown bears to grey wolves, Europe’s persecuted carnivores are bouncing back | Sophie Ledger | The Guardian).
Il rapporto riferisce che tutte le 50 specie di animali selvatici europei oggetto di specifica protezione e intervento nel corso di vari decenni sono aumentate; tra queste, è aumentata in modo consistente la popolazione dei grandi carnivori europei, fino a pochi decenni orsono quasi scomparsi: l’orso, il lupo e la lince.
Come è possibile questa divergenza tra il declino della biodiversità nel mondo e i successi europei?
Ovviamente, le possibilità di tutela dipendono in gran parte anche dagli Stati interessati: se la conservazione della biodiversità non è considerata come un obiettivo fondamentale dai governi e dalle comunità interessate, difficilmente possono essere raggiunti risultati positivi.
Ma ci sono due altri aspetti da considerare.
Il primo. Contano i mezzi finanziari che i paesi hanno a disposizione o che intendono dedicare alla conservazione della biodiversità, con la consapevolezza che deve trattarsi di investimenti in progetti concreti a lungo termine.
Natura 2000, il più grande network al mondo per le aree protette organizzato dall’Unione europea, ha investito nel corso degli ultimi trenta anni e fino al 2020 6,5 miliardi di euro per sostenere 5500 progetti nel territorio dell’Unione europea, mentre ulteriori 5,4 miliardi di euro sono già stati approvati per nuovi investimenti nel periodo dal 2021 al 2027.
Ben pochi paesi possono permettersi di dedicare risorse così ingenti per questo obiettivo.
Il secondo, Sono decisive le strutture legali e amministrative, inserite in corrette politiche ambientali, per garantire lo sviluppo delle specie che si intendono preservare. L’esperienza ha dimostrato che anche nelle situazioni più disperate la fauna selvatica torna a riprodursi se si creano le condizioni adatte.
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