di Alberta Leonarda Vergine
Quando ancora si era in fase di discussione del D.D.L.n. 2345/2014, che sarebbe poi diventato, con modifiche, la l. 68/2015, con riferimento alla previsione che raddoppiava i termini di prescrizione per i delitti ambientali ivi previsti, affermavo “perplessità desta in noi [anche] la norma che prevede lunghissimi tempi di prescrizione per i delitti ambientali. Non perché non condividiamo la scelta di sottrarre questi delitti, caratterizzati da un accertamento estremamente complesso, alla prematura estinzione per decorso del tempo, ma perché crediamo che limitarsi ad allungare, in maniera notevole, i termini di prescrizione (fino a trent’anni per il delitto di disastro ambientale) non sia una soluzione, ma ancora una volta un éscamotage simbolico, di grande effetto (forse) sull’opinione pubblica, ma di scarsissima efficacia in concreto.
Ricordiamoci che il delitto di disastro ambientale è previsto nel D.d.L. come reato di danno e il suo macro-evento, risulterà ben spesso condizionato dalla ‘presenza di fattori concomitanti, [… e rappresenterà] risultato storico di una pluralità di fattori causali, meglio di una pluralità di condotte’, attribuibili a una pluralità di soggetti, e frequentemente derivato da decorsi causali atipici, o ipotetici o alternativi”[VERGINE, La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, in RGA, 2014, 467 citando sul punto LO MONTE, Uno sguardo sullo schema di legge delega per la riforma dei reati in materia ambientale. Nuovi ‘orchestrali’ per vecchi spartiti, in Riv. trim. dir. pen. ec. 2008, 97 ]. Successivamente sulla disciplina della prescrizione è intervenuta la sciagurata riforma Bonafede e da ultimo la c.d. legge Cartabia (l.n.134 del 2021). Al netto del personale, e non eccessivamente entusiasta giudizio su quanto disposto in punto dalla citata legge, anche in ragione, ma non solo, della non particolarmente accurata redazione del nuovo art.344 bis c.p.p. anche solo dal punto di vista meramente linguistico (in esso infatti si fa riferimento al caso di un “giudizio particolarmente complesso in ragione …della complessità delle questioni”…..), non poco mi ha stupito quanto di recente scritto sull’argomento su un noto quotidiano [Il fatto quotidiano, 8 ottobre 2021] da un qualificatissimo e sempre molto attento esperto del settore [AMENDOLA, Riforma Cartabia, i reati ambientali non esistono].
L’illustre A. rammenta come la legge 134/21 preveda nel nuovo art.344 bis c.p.p., recante la rubrica “Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione”, al c.1 che “La mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”, al c.2 che “La mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale” e al c.4 che “Quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, i termini di cui ai commi 1 e 2 sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede, per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di cassazione”. Ma, sottolinea Amendola, sempre il comma 4 prevede anche che “Ulteriori proroghe possono essere disposte, per le ragioni e per la durata indicate nel periodo precedente, quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416 –bis , 416 -ter , 609 –bis , nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609 –ter , 609 –quater e 609- octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416 -bis .1, primo comma, del codice penale e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.
Nondimeno, quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416 –bis .1, primo comma (sic in Gazzetta Ufficiale!), del codice penale, i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione”. Secondo Amendola sarebbe da ritenersi gravissimo che tra questi reati non siano stati inseriti anche i delitti ambientali di cui alla l.68/2015, o quanto meno il delitto di disastro ambientale, come per altro richiesto, alla vigilia del voto definitivo sulla legge Cartabia, da Legambiente, Wwf, Greenpeace, Libera e Gruppo Abele, in quanto così “si rischia di eliminare, di fatto, buona parte delle potenzialità insite nella legge 68/2015”. Essendo noto, prosegue nel suo ragionamento Amendola, che le nuove fattispecie “proprio per la loro struttura, richiedono non solo complesse indagini di polizia giudiziaria, ma anche accurati e delicati accertamenti tecnici specialistici dove si deve tener conto sia dei danni attuali che di quelli futuri, come quando si tratta di valutare se vi è stata la ‘alterazione irreversibile di un ecosistema’ o il ‘deterioramento significativo e misurabile dell’acqua o dell’aria o di porzioni estese e significative del suolo o del sottosuolo”. E, su questo, nulla da obiettare, ovviamente, essendomi già espressa nello stesso senso (quasi, in quanto il rinvio di Amendola anche a danni futuri dei quali si dovrebbe tenere conto per l’accertamento del macro evento di questi delitti mi lascia perplessa), ma l’autore aggiunge che è “del tutto prevedibile che, in caso di condanna in primo grado, i titolari di una azienda inquinante tenteranno (legittimamente, sia chiaro) in tutti i modi di mettere in dubbio la sentenza soprattutto con dotte ed elaborate consulenze tecniche di parte, da inserire in un dibattimento che dovrà svolgersi in appello dinnanzi a Corti già oggi oberate di lavoro, con tempi lunghissimi anche solo per la fissazione della udienza.
Ma così due anni passano presto e arriva la improcedibilità”. In altri termini, “mettendo questi delitti nel calderone della improcedibilità Cartabia” i delitti ambientali finirebbero tra i tantissimi “ghigliottinati” dalla stessa. Quindi, par di capire, per Amendola la soluzione starebbe tutta nel concedere anche per questi delitti la possibilità di “ulteriori proroghe” di cui alla seconda parte del comma 4 dell’art. 344 bis c.p.p. Ma questo inserimento sarebbe produttivo di concreti risultati, almeno a parere di chi scrive, solo a patto che le “ulteriori proroghe”, cui genericamente si allude nel disposto non essendo previsto esplicitamente un loro numero definito, possano essere tante, quante ne servono per arrivare fine giudizio di impugnazione senza timore di vedere il processo stoppato dalla improcedibilità. In altri termini, così opinando per i delitti ambientali, al pari di quelli tassativamente indicati nella seconda parte del c.4, la c.d. prescrizione del processo potrebbe non verificarsi mai.
In buona sostanza, in questo modo, seppur surrettiziamente, detti delitti diventerebbero imprescrittibili al pari di quelli puniti con la pena dell’ergastolo. Al proposito, si è già fatto notare come questa interpretazione “estrema” nasca da una “redazione della norma non particolarmente ‘felice’ anche a causa di “un’interpolazione dell’ultima ora nel testo dell’art. 344 bis, comma 4, c.p.p. relativa alle tipologie dei reati particolarmente gravi [che] non presenta una formulazione del tutto perspicua. Si parla infatti di «ulteriori proroghe [che] possono essere disposte per le ragioni e per la durata indicate nel periodo precedente», cioè le ragioni di complessità processuale e la durata di un anno. Ma non è del tutto chiaro se l’anno di durata massima vada riferita a ciascuna singola proroga ovvero alla somma totale delle proroghe (come forse suggerirebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata)” [PALAZZO, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in www.sistemapenale.it, 2021] Non solo, ma la distinzione introdotta dalla riforma Cartabia tra prescrizione del reato e c.d. prescrizione del processo potrebbe anche considerarsi “contraddire la consolidata opinione della Corte costituzionale, secondo la quale la prescrizione ha natura intrinsecamente sostanziale, soggiacendo pertanto a tutte le garanzie costituzionali in materia penale. Muovendo dall’assunto della Corte, la nuova disciplina della improcedibilità dell’azione penale potrebbe dar adito a qualche dubbio di costituzionalità”. Ad esempio “la disposizione che consente le proroghe dei termini di improcedibilità sia in generale per ragioni di complessità processuale, sia con particolare riferimento ad alcune tipologie di reati nominativamente individuati (comma 4 del nuovo art. 344 bis c.p.p.)[…] Ebbene, seppure determinate nelle ragioni e nella durata, le proroghe sono pur sempre rimesse alla discrezionalità del giudice procedente. Orbene, recentemente la Corte costituzionale ha affermato una forte esigenza di determinatezza dei termini prescrizionali sulla premessa della natura sostanziale della prescrizione (sent. 6 luglio 2021, n. 140): se tale natura dovesse essere riconosciuta anche alla prescrizione del processo, non è del tutto da escludere che un eccesso di zelo costituzionale possa condurre qualche interprete a ritenere non sufficientemente determinato il sistema delle proroghe” [PALAZZO, op.loc.cit.].
Inoltre, almeno a mio avviso, detta interpretazione ‘estrema’ del disposto sarebbe contraddetta da quanto implicitamente previsto dalla parte finale del comma 4, in essa infatti, si prevede che “quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416 –bis .1, primo comma del codice penale, i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione”. Ciò significa che in questi casi, indubbiamente i più gravi, le ‘ulteriori proroghe’ non possono comunque superare il triplo dei termini previsti dalle “normali” proroghe di cui alla prima parte del c.1, espressamente richiamati nella seconda parte dal rinvio alla “durata” di cui al periodo precedente.
Quindi, se questi sono i limiti massimi per le ipotesi di delitti più gravi, è pensabile che si preveda che, al contrario, per delitti meno gravi non esistano limiti temporali alle proroghe? L’idea ci pare del tutto irragionevole e chi la volesse sostenere dovrebbe poi trovare soluzione alla paradossale situazione che si verrebbe a creare qualora i delitti ambientali fossero ricompresi nel novero di quelli per i quali sono previste “ulteriori proroghe”. Pensiamo, ad esempio, al delitto di disastro ambientale qualora si procedesse per delitto ambientale aggravato ai sensi del comma 2 dell’art. 452 octies, c.p., cioè “quando l’associazione di cui all’articolo 416 bis è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo ovvero all’acquisizione della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale”; in questo caso si dovrebbe applicare l’ultima parte del c.4 e i periodi di proroga non potrebbero superare i limiti temporali ivi indicati. Al contrario, quando si procedesse per disastro ambientale non aggravato ai sensi dell’art.416 bis, detti limiti non opererebbero e le proroghe potrebbero succedersi… a tempo indeterminato. Comunque sia, secondo Amendola detti delitti andavano comunque inseriti in quell’elenco. Ma il loro inserimento appare a chi scrive come un altro, l’ennesimo, éscamotage simbolico che da sempre caratterizza il diritto penale ambientale [sulla questione rimandiamo al VERGINE, Dall’anomia alla ipertrofia normativa: un diritto penale ambientale sempre più simbolico e sempre meno efficace, RGA 2017, 1, 21 ss.]. Inserirli in quell’elenco potrebbe (forse) servire per sottolinearne il grande disvalore, ma in concreto non so quali vantaggi si trarrebbero.
Cerco di spiegarmi meglio.
E’ noto che qualunque discorso sulla riforma Cartabia “non può non considerare anche il contesto politico in cui quel testo è maturato. Non solo il progetto di riforma prende la forma di emendamento ad un disegno di legge presentato dal ministro della giustizia del precedente governo (il 13 marzo 2020, AC 2435), ma sono anche e soprattutto le condizioni politiche generali in cui esso matura che inevitabilmente lo condizionano” [PULITANO’, Riforma della prescrizione. giochi linguistici e sostanza normativa, in www.sistemapenale.it, 2021,] pertanto è inevitabile che le soluzioni proposte paghino il prezzo dei compromessi dai quali scaturiscono. Nell’ambito ristretto che qui ci interessa ciò è estremamente evidente essendo “la disciplina proposta articolata in due fasi che seguono criteri diversi. Fino alla sentenza di primo grado, resta fermo il modello di cui alla legge del 2005. Per la fase successiva viene proposto – sotto l’etichetta dell’improcedibilità – un modello nuovo, legato ai tempi del processo, costruito con la fissazione di termini di durata per le fasi dei giudizi d’impugnazione” [PULITANO’, op.loc.cit.]. E si stabilisce che (cfr. nuovo art. 161 bis c.p.) “Il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado”.
Tornando all’esempio di un processo per disastro ambientale, si è già detto (e scritto) che spesso è assai rilevante la distanza temporale tra la condotta rimproverata all’agente e la evidenza e quindi l’accertamento del macro-evento del reato e che anche in ragione di ciò la legge 68/15 ha raddoppiato i termini di prescrizione di quel delitto, portandoli a trenta anni. Tuttavia, dobbiamo tener conto di quanta indicussa dottrina ha sostenuto commentando l’art. 2, c.1 lett.c) e c. 2,lett.a) della l.134/2021 : “quanto più la sentenza di primo grado sia vicina nel tempo al commesso reato, tanto più breve [sarà] la distanza temporale fra il reato e il maturare dell’improcedibilità. Quanto più tardiva [sarà] la sentenza di primo grado, tanto più tardivo il maturare dell’improcedibilità.”[PULITANO’, op.loc.cit.]. Orbene, nel caso di disastro ambientale, proprio perché, come ha evidenziato anche Amendola nel suo articolo – anche se con riferimento solo alla fase dell’appello – la strategia difensiva degli imputati sarà spesso tesa a negare con perizie e testimonianze o la realizzazione stessa di quell’evento tipico – nel caso del delitto di cui all’art.452 quater n.1) addirittura l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema -, o il rapporto causa-effetto tra la condotta rimproverata all’imputato e detto evento, la sentenza di primo grado sarà sempre tardiva e, di conseguenza, altrettanto tardivo sarà il maturare della improcedibilità. Il tutto senza dover ricorrere, come vorrebbe Amendola, a quelle “ulteriori proroghe” che, se ritenute infinite, consentirebbero di non giungere mai alla declaratoria di improcedibilità. E che, invece, se previste nei limiti che una lettura costituzionalmente orientata e ragionevole del c.4 dell’art 344 bis c.p.p. nel suo complesso, non cambierebbero in concreto la situazione.
In conclusione mi sento di riproporre, invitando chi legge a meditarle bene, le (condivise) considerazioni in punto prescrizione/improcedibilità di un eccellente penalista che ha affrontato l’analisi della riforma Cartabia con la pacatezza che gli deriva dalla assoluta padronanza della materia. “Distinguere tra tempo dell’oblio (produttivo della prescrizione del reato) e tempo del processo (produttivo dell’improcedibilità dell’azione penale) significa prendere atto della realtà e delle diverse esigenze sottese ai due diversi segmenti temporali. Fino a che non è instaurato il processo, o comunque non è raggiunto un determinato suo stadio, il tempo consuma la memoria del reato e le esigenze della sua repressione: per cui appare del tutto ragionevole che il corso della prescrizione del reato cessi definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado (come dispone il nuovo art. 161 bis c.p.). Dopo l’inizio del processo, o dopo la diversa soglia processuale fissata dal legislatore (nella sentenza di primo grado), il tempo diventa costitutivo di una vera e propria pena di fatto, come diceva Carnelutti: di ciò è doveroso prendere atto, specialmente in un momento storico in cui l’anticipazione di pena è diventata una realtà consistente in ragione dell’effetto sinergico del protagonismo delle indagini preliminari e delle misure cautelari unito all’amplificazione mediatica in senso sempre accusatorio. Dunque, il diritto alla ragionevole durata del processo si sposa con l’ancora più perentorio diritto ad essere considerato innocente fino alla condanna definitiva. Le “tagliole” dei termini oltre i quali l’azione diventa improcedibile […] comportano un enorme sacrificio per la giustizia penale […], ma costituiscono l’unico strumento per dare effettiva consistenza a quei due diritti fondamentali, alla ragionevole durata del processo e a non subire pene di fatto sostanzialmente indeterminate. Almeno fino a quando la macchina giudiziaria non avrà, in un modo o nell’altro, riconquistato un “passo” tale da rendere di fatto inutili quelle tagliole” [PALAZZO, op.cit].
SCARICA L’ARTICOLO IN PDF